Un auspicio
o una
pia illusione…
Fine dell’edonismo?
Ritorna a volte, nel dibattito pubblico o nella
parlata popolare, una considerazione che funge da monito consolatorio:
l’attuale crisi economica almeno un risultato, un guadagno potrebbe
arrecarcelo: un tempo di riflessione sull’inganno del consumismo, un sano
riscatto dal piacere facile. Fine dunque dell’edonismo? L’esito non è scontato.
In senso esteso l’edonismo è considerato la
pratica di vita all’insegna del piacere. Ma, davvero, la nostra epoca si è
caratterizzata per la ricerca del piacere? Potrebbero essere numerosi gli
indicatori che descrivono piuttosto una società che non ha saputo e non sa
godere.
L’autore che forse per primo ha intuito il
senso delle trasformazioni di fine ‘900 è stato Zygmunt Bauman, con la sua
definizione del nostro mondo come “società liquida”, caratterizzata dalla
corruzione del codice dell’amore.
I legami sono diventati evanescenti e insicuri.
Alla leggerezza delle relazioni senza impegno (la relazione pura di A. Giddens)
non corrisponde la stabilità del piacere, ma un’affettività inquieta e pesante;
alla fragilità psicologica seguono le identificazioni “solide” delle
dipendenze, delle immaturità; alla evanescenza degli affetti subentra
l’ingannevole sponda dei comportamenti standardizzati; alla gratificazione
illusoria del narcisismo la paura dell’altro, la ribellione nei confronti della
comunità. L'esito complessivo è un rapido indebolimento dei rapporti umani, che
si spogliano di intimità ed emotività. Nella società nel suo complesso la gente
è più isolata, e ha meno opportunità di esprimere collettivamente emozioni e
sentimenti forti.
Il legame è costitutivo dell’umano: non esiste
essere umano se non in rapporto ad altri esseri umani. Tagliare il legame
significa eliminare il piacere. Lo racconta la lunga storia degli amori
traditi, dei legami evanescenti, dell’affettività immatura. Lo dice la
solitudine del cittadino globale, che rende la vita affettiva assai travagliata
e piena di microconflitti. Si fa sempre più fatica a costruire un rapporto
stabile a partire da se stessi.
Anche divertirsi oggi è diventato più difficile La
continua sollecitazione degli stimoli, l'alternarsi frenetico delle esperienze
e la pronta sostituzione delle delusioni possono essere tollerati grazie alla
reazione contraria: la demotivazione, l’apatia, la noia, il non ascolto.
Alla fine, anziché sviluppare il piacere come un ingrediente necessario e
naturale della vita, si finisce di vivere anche il proprio corpo come nemico.
Il corpo, liberato e reso disponibile per il piacere, si rivela fonte di nuovi
tormenti, una situazione carica di nevrosi perché ogni ricerca di godimento è
soffusa di paura (l’ansia della prestazione).
Le nuove espressioni del disagio interiore e
relazionale e della sofferenza mentale (dipendenze, anoressie, depressioni,
somatizzazioni, attacchi di panico, disturbi della personalità) riguardano,
infatti, prevalentemente e in modo crescente, la perdita del desiderio,
l’annullamento del piacere, la pulsione di morte. Sono espressioni profonde di
una sofferenza riassumibile nella cifra sintetica del vuoto esistenziale.
La sindrome tossicomane, quella depressiva,
anoressica e psicotica, non sono però solo patologia. Sono anche sintomi
dell’attuale stato di disagio dell’umanità.
Fin dalle analisi freudiane sappiamo che il
mentale è condizionato dal sociale. Tra il sintomo classico e il male della
modernità avanzata sussiste, tuttavia, una differenza netta. Secondo la prima
psicanalisi, per abitare il mondo e far parte della civiltà, la persona doveva
sacrificare qualcosa del suo godimento, barattare un po’ di libertà per avere
un supplemento di sicurezza. Oggi l’insegna sociale del sintomo consiste,
all’opposto, nell’adesione a una ricerca di godimento narcisista che, per
principio, esclude l’Altro. L’opposizione radicale alla verità del legame umano
produce il fenomeno del vuoto come stato mentale fondamentale nella percezione
di sé.
Nell’epoca della perdita del Padre, la
psicopatologia del vuoto genera sempre più persone spaesate, alla deriva, prive
di punti di riferimento, indifferenti, chiuse, incapaci di autonomia,
predisposte invece al controllo e alla pressione di adeguamento. Così il
godimento dissipativo si combina con la perdita del piacere, l’incapacità a
godere.
Quando il radicamento della personificazione non
affonda nella relazione interpersonale, la costruzione di sé viene demandata al
rapporto di possesso e di godimento delle cose, il bisogno di riconoscimento
comunicativo si esaurisce nei valori acquisitivi (quelli che si comperano con
denaro). In questa prospettiva acquista importanza solo ciò che è espressione
di forza e di esuberanza vitale. Si impone il culto della prestanza fisica, si
idolatra il desiderio soggettivo. Si esalta la vitalità impulsiva, l'espandersi
delle libere micropulsazioni vitali. Si assiste all'esaltazione del corpo bello
e sano, del fisico come luogo delle possibilità espressive indefinite, mentre
si tende a misconoscere e a negare il senso del limite.
La sofferenza e il disagio, anche quelli della
vita quotidiana, sono ritenuti insopportabili. Il corpo comune viene
svalutato. La violenza in tutte le sue espressioni, verso le cose (teppismo)
come verso gli altri (bullismo), nelle aggregazioni sportive (tra le tifoserie
e negli stadi) come nella competizione (il doping), è sempre il segno di una
condizione di malessere, radicata nell'isolamento e nella paura dell'altro.
L’eccesso del mondo materiale (il “pieno” dell’immaginario del consumo)
comporta la morte del mondo personale (il “vuoto” relazionale).
Rimane la possibilità di accontentarsi di essere
soddisfatti in una società dove ognuno ha la libertà relativa di scegliere il
modo di vivere che gli va. Un orizzonte realista di felicità che è chiamato
benessere individuale, dove il godimento e il piacere sono costantemente
indicati come le dimensioni essenziali della salute, come ben documenta
il “manifesto edonista” di Michel Onfray: il diritto al corpo, alla
salute, alla felicità, all’espressione di sé, al di là di tutte le regolamentazioni
e le limitazioni. Ma la realtà sotto i nostri occhi non sembra mantenere quelle
promesse.
La riduzione dell’avere, concomitante con la crisi
economica, potrebbe essere un’occasione per prendere atto delle contraddizioni
del “consumismo”. Tuttavia questa conversione non avviene in modo automatico.
L’edonismo è basato su una finzione, su un
non-essere: la promessa che non si compie. La crisi economica è una minaccia
(per moltitudini di persone lo è in senso reale e drammatico) all’avere, è un
non-avere. Ma una diminuzione dell’avere non garantisce un aumento dell’essere;
una minaccia materiale non è immediatamente un’acquisizione spirituale, qual è
la felicità.
La risposta al vuoto è possibile, ma deve essere
asimmetrica, attiva ed efficace. Deve cambiare il vuoto in mancanza, la
saturazione istantanea nel desiderio, il desiderio nel piacere di vivere.
Per mancanza si intende un’esperienza di
incompletezza, ossia uno stato mentale simbolizzato e rappresentato nella
relazione con l’altro. La mancanza avverte dolorosamente la propria
insufficienza, che alimenta la tensione del desiderio nella persona che io sono
(la mancanza).
Fuori dai legami, la persona è come “dormiente”
(il vuoto). È l’altro che risveglia in me la vita. Il vuoto costituisce uno
spazio mentale privo di simboli, non abitato, deserto. Il vuoto cerca, così, in
modo totalizzante la percezione di sé tramite la pulsione del godimento
narcisistico, dove il corpo è ridotto a puro strumento di soddisfacimento
esclusivo e vorace. Il vuoto, dissociato dal desiderio, non sopporta la
percezione dell’incompletezza ma conduce alla dispersione dell’evanescenza,
alla incapacità di fare i conti con il reale, perché privo di ogni simbolo e
trascendenza. La perdita del desiderio è riempito dalla ricerca compulsiva di
nuove sensazioni, che rende sordi al tempo lungo del pensiero. Nel consumismo
infatti il vissuto soggettivo del vuoto prevale chiaramente sulla percezione
interiore della mancanza.
Nella società del predominio tecnologico,
l’inconscio è sempre meno considerato come la zona d’ombra dove le ferite della
vita sono custodite nel non detto e nel non pensato della rimozione. Il dolore
del vuoto, la resistenza a godere, sono trattati come mera alterazione
biochimica dell’organismo, da correggere con psicofarmaci e terapie
cognitivo-comportamentali. La noia del vivere, che è la reazione sana
dell’intelligenza per il suo sottoutilizzo, è considerata un vizio
incomprensibile (“come, con tutto ciò che c’è, tu ti annoi?”).
La “clinica del vuoto” (M. Recalcati) tratta fondamentalmente
l’assenza della domanda d’amore, la perdita della garanzia di senso dato dai
legami e l’eclissi di un ordine trascende del mondo (la perdita del Padre).
L’“antiamore” è assenza radicale di competenza
relazionale ed emozionale. Al desiderio subentrano così il narcisismo e il
cinismo del godimento del Sé senza l’Altro: è la vittoria finale della
globalizzazione del mercato, in cui l’oggetto s’impone sulla mancanza e la
colma. Il simbolico si riduce al simpatetico (il fare
compulsivo), o si confonde con il simbiotico della fusione
emozionale. Sono le identificazioni solide (il frutto delle relazioni liquide)
ben descritte nelle analisi di Massimo Recalcati: è l’insostenibile ritorno
alla fusione che si rovescia nella pulsione di morte.
Il godimento viene reso equivalente alla Legge,
diventa un obbligo urgente, incombente e improrogabile (“Questa notte mi devo
assolutamente divertire!”, “Questo oggetto lo devo assolutamente comperare”,
“Questa persona è assolutamente mia”). Predominano, negli individui, nelle
famiglie, nelle aggregazioni, i comportamenti mimati, adeguati agli standard
della società del controllo. È la fine del piacere di vivere: il deserto
relazionale dell’amore corrotto amplifica il dolore del narcisismo ferito, lo
stato di frustrazione, di depressione e di melanconia del sentirsi presto
sostituiti, respinti, rifiutati.
La pratica clinica ed educativa che tratta il
vuoto e i suoi sintomi è tesa al raggiungimento di tre obiettivi prioritari di
cura, che sono poi gli elementi base della ricostruzione dell’umano:
- l’esperienza del valore del legame con l’Altro
(l’empatia, la cura, la responsabilità)
- la convergenza del desiderio con il godimento
(il ritrovamento reale del piacere di vivere)
- il ricongiungimento di eros e morte (la rinuncia
a possedere l’Altro, perché, per dirla con J-L Marion: l’eros permette alla
carni di incrociarsi ma non garantisce alle persone di incontrarsi).
In altri termini, sono il riconoscimento del
valore della relazione affettiva come antitesi alla pulsione di morte, la
riscoperta del “sentimento della vita” (Lacan) (o il “senso della vita” Adler)
e dei valori concretizzati negli stili di vita e la rigenerazione
dell’esperienza interiore e spirituale della mancanza, (in alternativa al
vuoto), che in definitiva permettono di dare spazio all’Altro.
L’efficacia della sinergia tra intervento clinico,
pratica educativa e testimonianza spirituale consiste nel dare prova della
forza etica del lavoro di cura: l’assunzione etica del desiderio per renderlo
capace di realizzazioni creative.
Il desiderio (“de-sidera”) ha a che fare con
qualcosa che sta in alto, come le stelle, al di là di noi stessi e della nostra
portata. Attraverso tale movimento il soggetto è capace di prendere le distanze
dall’immediata concretezza del vissuto. Il desiderio costituisce una struttura
caratteristica dell’esperienza umana: senza il desiderio, nessuna simbolica del
possibile potrebbe darsi. Senza passione infatti non avviene nulla di grande
(Hegel).
Secondo J. Lacan il soggetto è strutturalmente
mancante, e per questo “desiderante”. Senza esperienza del limite (la mancanza
che il consumo vorrebbe saturare) non si dà esperienza del desiderio.
La società dei consumi (Jean Baudrillard) si
illude di saturare il limite, non è quindi capace di educare al desiderio.
Vuole, coltiva, idolatrizza il piacere; trasforma il corpo in un sensorio per
renderlo una “macchina desiderante”. Non si volge “alle stelle”; vuole tutto,
subito, non importa come. È così costretto a operare tre fondamentali riduzioni:
1. temporale: il piacere è ridotto all’orizzonte
dell’immediatezza, della gratificazione istantanea. (voglio subito)
2. individualistica: secondo il sentire impulsivo
di ciascuno (voglio tutto)
3. materialistica, dove la centralità è attribuita
ai sensi e la misura è stabilita nel soddisfacimento (voglio non importa come).
Il capitalismo oggi non è più una semplice
sovrastruttura ma una struttura invasiva: lavora sul
desiderio, sfrutta il desiderio focalizzandolo sugli oggetti. La
declinazione kantiana del super-Io sociale (Tu devi!) si trasfigura nella sua
declinazione sadiana: (Godi!). Ma il piacere non sopporta questo paradosso.
Un tale obiettivo, tuttavia, si rivela sempre
illusorio: il vuoto non è mai riempito attraverso gli oggetti, che devono continuamente
essere rinnovati per saturare. Si tratta di un’ebbrezza che ha appena la durata
di un lampo. Lacan ha chiamato questi lampi provvisori di
saturazione“lichettes” (lo sgranocchiare). Agnes Heller già da tempo ha
analizzato il paradosso del piacere consumistico: per spingere all’acquisto e
al suo “piacere”, il sistema consumistico deve produrre continua
insoddisfazione.
Come si è giunti a questo drammatico travisamento?
Ci può essere di aiuto la puntuale analisi di
Mauro Magatti (La libertà immaginaria).
La libertà sembrerebbe oggi potersi dare senza
alcun riferimento alla questione della verità. Eppure le persone hanno bisogno
di dare significato alla loro vita, così come l’intesa tra le persone e la vita
sociale ha bisogno di criteri per selezionare gli infiniti possibili
significati elaborati dai singoli individui. Sono i significati che orientano
le azioni e permettono l’intesa.
La crescente disponibilità di discorsi e
l’espansione degli spazi dell’interpretazione soggettiva rendono sempre più difficile
la condivisione intersoggettiva – e con essa l’istituzionalizzazione – di
significati. Lo straordinario sviluppo delle applicazioni tecniche genera una
“verità” basata sulla forza emozionale degli eventi, disattivando il processo
di significazione. Il progresso tecnologico accresce di continuo il proprio
potere di azione (incluso quello di comunicare), ma dispone sempre meno di
narrazioni collettive di senso.
Questo processo condizione fortemente le tre
“polarità” costitutive dell’esperienza umana.
- Gli individui si sentono liberi dal loro debito
nei confronti del gruppo e della tradizione. Una società diventa incapace di
restituzione (La restituzione, Francesco Stoppa)
- La verità condivisa non è più ricercata
attraverso il “dire” dell’incontro, ma tramite il “fare” della
tecnologia. Il progresso tecnico finisce per compiere la stessa funzione che
nell’antichità svolgevano gli idoli: qualcosa di intoccabile, al di sopra di
ogni valore, legame, giudizio. (cfr. lo stupore davanti alle innovazioni tecnologiche,
la ritualizzazione dei momenti con cui si provvede a lanciare sul mercato
globale i nuovi prodotti, il successo del filone fantasy: oggi con gli oggetti
si acquista uno stile di vita)
- Sembra avviarsi un processo di
spiritualizzazione della materia: l’intera dimensione “spirituale” viene
ricondotta a fenomeni puramente biologici e biochimici.
La “ragione debole” considera intrattabile
qualunque questione di verità come significato. Si riduce alla sfera della
razionalità strumentale, separa il più possibile la sfera cognitiva da quella
emotiva. Il problema è che – senza più alcuna relazione con
il logos – la sfera del pathos è semplicemente
indeterminata e quindi ben poco in grado di sostenere una qualche stabile
soggettività. Un enorme vuoto di senso che grava sulle spalle del singolo
individuo, al quale viene detto che spettano a lui l’onore e l’onere di
costruirsi un discorso sul mondo e su se stesso, ma gli viene anche suggerito
che gli strumenti (la parola e la ragione) per dare risposta a tale
questione non funzionano più.
Neppure è convincente la soluzione prospettata e a
lungo indagata da Freud, il quale invoca un’epoca di liberazione, “una comunità
civile consistente di individui doppi, i quali, saziati libidicamente in se
stessi, sono collegati tra loro in virtù della comunanza di lavoro ed
interessi” (Il disagio della civiltà).
La persona umana è sensibile alla trascendenza,
tenta costantemente di andare al di là dell’immediatezza della propria
condizione. “Il sacro è un elemento della struttura della coscienza, e non un
momento della sua storia” (Eliade).
Tale attitudine consta di tre elementi di base:
- l’autocoscienza del soggetto (coscienza di avere
coscienza).
- il sentimento di angoscia nei confronti della
propria finitudine.
- l’apertura all’eccedenza ed all’alterità.
Queste tre relazioni danno vita ad un intreccio
che costituisce la trama stessa di quell’esperienza all’ interno della quale
qualcosa come una coscienza prende forma.
Nella modernità “liquida”, invece, tutto si
scioglie: significati, legami, individualità. Prevale nuovo tipo di
aggregazione sociale che Bauman chiama “sciame”: un insieme di entità senza
scambio né cooperazione, una mera prossimità fisica che V. Turner chiama
“esperienza di flusso”, dove il senso coincide con il “raggiungere
l’effetto”, dove il legame con gli altri è di tipo meramente funzionale e
deriva direttamente dall’intensità del coinvolgimento.
Se non esistesse nulla di stabile, se nulla avesse
valore se non nell’attimo in cui si dà, se l’ “etica” diventasse pura
“etichetta” e i valori semplici valutati, non sarebbe neppure possibile la
costruzione di esperienze comuni: diremmo “tolleranza” ma intenderemmo
“indifferenza”, mera coesistenza di differenze; parleremmo la solidarietà ma
ricreeremmo subito altre contrapposizioni etnocentriche (i confine delle
appartenenze, religione, territorio), che finirebbero per diventare un fattore
di disgregazione.
Ho cercato, nel limite di questa relazione, di
portare la riflessione e la voce delle comunità terapeutiche e dei luoghi di
cura che trattano quella condizione che Recalcati chiama la “clinica del
vuoto”.
Esse cercano di affrontare il vuoto della vita con il pieno della quotidianità, di animare il deserto relazionale attraverso vivide simbologie dell’appartenenza ai legami interpersonali, perché la caduta sociale della speranza può essere contrastata dalla ritrovata virtù della magnificenza (la passione per una grande opera sociale, culturale, spirituale).
Esse cercano di affrontare il vuoto della vita con il pieno della quotidianità, di animare il deserto relazionale attraverso vivide simbologie dell’appartenenza ai legami interpersonali, perché la caduta sociale della speranza può essere contrastata dalla ritrovata virtù della magnificenza (la passione per una grande opera sociale, culturale, spirituale).
In comunità si propongono le esperienze fondanti
del vivere, si ricostruisce innanzitutto l’umano (che è la più grande opera);
così come i luoghi di accoglienza e di cura del dolore mentale possono
diventare laboratori sociali, avamposti della ricerca di nuove percorsi di
civiltà. Dove si cerca in ogni modo di stabilisce una solida alleanza tra il
desiderio e la Legge, di far convergere il godimento con il sentimento della
vita.
Fine dell’edonismo? Probabilmente no.
È possibile però moltiplicare i luoghi in cui
impariamo ad incontrarci, percorrendo la strada della bella notizia del piacere
di vivere.
Un’indicazione importante l’ho trovata
nella risposta lapidaria di J. Lacan alla domanda “Che cos’è l’amore?”:
“L’amore è dare ciò che non hai a una persona che non conosci”
L’amore ci trascende, va oltre ogni desiderio di
cui è la segreta origine. E l’Altro è un mistero che non si finisce mai di
scoprire.
Domenico Cravero
Interdependence 1 Giugno 2012
…per
far si
che
il mondo cambi
oltre
a meditare
occorre
AGIRE
su
se stessi!!!
…se volete dite la Vostra qui sotto!!!
gba
In un momento politico così sconcertante che trova molti come me delusi e disillusi, anche l’edonismo vacilla, anche il piacere cercato tra le cose materiali perde di significato, perde il piacere del confronto e la pochezza diventa deprimente.
RispondiEliminaDopo aver toccato il fondo e aver trovato un vuoto di teste pensanti, di futuro, di relazioni, di sguardi, di comunicazione, di altruismo, cercare in qualche angolo della memoria un pensiero positivo è condizione essenziale e indispensabile per tenere stretta almeno l’illusione che qualcosa può cambiare.
Siamo davvero così assenti all’appello dei sentimenti ? Incapaci di amare e di lasciarsi amare, impanati da una solitudine che inibisce l’andare oltre la superficie?
Voglio pensare che questa situazione sia una sorta di “legge del contrappasso” e dunque per contrasto si possa ritrovare la voglia di guardarsi intorno per rintracciare il branco.
Ho ritrovato spesso nella letteratura New Age un insegnamento fondato sulla celebrazione della vita considerata come una serie di momenti distinti tra loro, in cui noi creiamo e viviamo la nostra realtà. Dove soltanto quei momenti lì contano e bisogna imparare a viverli e gustarli. Spostarsi, il più possibile da tutto ciò che fa stare male e vivere il più che si può ciò che fa star bene.
E’ una piacevole utopia, lo so … ma la prorompente precarietà che ci accompagna su quasi tutti i fronti: la famiglia, il lavoro, la casa, la vita ….. avvicina seppur inconsciamente, soprattutto i giovani a questo pensiero. Vedono il vivere alla giornata come il solo modo possibile, non riescono a guardare verso il futuro, perché al loro futuro hanno rubato la fantasia.
Margherita
“L’amore, mentre la vita ci incalza, è semplicemente un’onda alta sopra le onde.”
Pablo Neruda