Noi quest’anno parleremo di
MEMORIA
perché sappiamo che…
perché sappiamo che…
«La memoria non è
il ricordo.
La memoria è quel
filo
che lega il passato al presente
e condiziona il futuro»…
Come si usa la memoria
«La memoria non è il ricordo. La memoria è
quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro». Lo ha detto
di recente Piero Terracina uno degli ultimi testimoni di Auschwitz ancora in
vita. Sono parole dense che faccio mie e alludono a questioni che in Italia ci
riguardano direttamente.
Vorrei
proporne tre: 1) abbiamo aperto una riflessione storica e critica sul passato
oltre la commemorazione? 2) Abbiamo un calendario civile che esprima quell'idea
di memoria? 3) Quella memoria ha un rapporto con la nostra quotidianità?
Storia della Shoah in Italia (Utet, 2010) è una grande opera che due anni fa un
gruppo di storici (Simon Levis, Marcello Flores, Enzo Traverso, Anne Marie
Matard Bonucci) ha proposto per ripensare quell'evento in relazione alle
metamorfosi, della società italiana, nel tempo lungo tra Risorgimento e
attualità indagando le lunghe premesse nell'Italia liberale, le vicende della
persecuzione; mettendo l'accento sui perseguitati, i persecutori, la grande e
diffusa indifferenza, ma anche sulla delazione, sulle sottrazioni di beni e
cose; poi sul lento rientro e sulle molte forme di rappresentazioni di quella
vicenda che "fanno memoria" di quell'evento (cinema, letteratura,
arte, monumenti, web).
Perché
quell'operazione culturale di alta qualità e innovativa, ha cozzato
sostanzialmente nel silenzio? Che cosa significa fare politiche e pedagogie
della memoria oltre la commemorazione? Questa è la questione che quella
discussione mancata ci lascia in eredità.
Credo che in Italia oggi questa questione abbia un valore particolare, maggiore
che in altri contesti nazionali europei, perché noi oggi siamo un Paese che non
ha più un calendario di feste pubbliche, collegate alla propria storia, che
abbiano una funzione pedagogica, riflessiva e soprattutto formativa di un ethos
pubblico. Paradossalmente, perché siamo il Paese con più date memoriali nel
proprio calendario.
Ha ricordato lo storico Giovanni De Luna (La repubblica del dolore,
Feltrinelli) come negli ultimi dieci anni sull'Italia si è abbattuta una
valanga di date.
Oltre
al 27 gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle
vittime delle foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle
vittime del terrorismo; il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti
militari e civili nelle missioni internazionali per la pace». Poi abbiamo il 4
ottobre, «già solennità civile in onore dei Patroni speciali d'Italia San
Francesco d'Assisi e Santa Caterina da Siena», dichiarata anche «giornata della
pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse»;
il 2 ottobre giorno della Festa dei nonni.
Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno
scarso rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di
incrementare la sacralizzazione del passato e l'irrilevanza degli eventi
terribili che accadono nel nostro presente. Si dirà: rispetto a tutte le altre
date che ho elencato il «giorno della memoria» ha stabilito una sua
"tradizione". Ci è riuscito in forza di una dimensione internazionale
(il 27 gennaio non è una data che si riferisce a un fatto accaduto in quel
giorno in Italia), ma anche in forza di una certa ambiguità.
Nel
suo intervento al Parlamento italiano, il 27 gennaio 2010 il Premio Nobel Elie
Wiesel ha sottolineato come porre il problema della memoria significhi come
ricordare e non se ricordare. «A qualsiasi livello della politica e al più alto
livello della spiritualità – ha detto Wiesel – il silenzio non aiuta mai la
vittima: il silenzio aiuta sempre l'aggressore». È un ottimo spunto. Il cuore
di questa considerazione, tuttavia, non sta nel l'uso della parola, bensì nella
funzione. Ovvero deve rispondere alla domanda: che ce ne facciamo della
memoria?
Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro
l'oblio. È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i
carnefici, né tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente
pensava o che fosse un merito (perciò l'ha tenuto bene a mente) o che non
valesse la pena preoccuparsi (e l'ha collocato tra le cose viste, ma di
secondaria importanza).
Nel
caso dei carnefici, sconfitto il nazismo, essendo iniziata dopo una stagione in
cui bisognava nascondere le proprie emozioni e ciò che si era fatto, occorreva
sviluppare una doppia memoria (chi si reinventa un passato da dire in pubblico
deve sempre tenere a mente tutto ciò che dice, non può mai distrarsi). Nel caso
di chi ha visto e non ha fatto niente perché quel problema rimane sullo sfondo
rispetto ad altre cose che lo riguardavano e che ritiene ancora lo riguardino
in misura rilevante.
Ma
se «la memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il
futuro», l'operazione che connette e condiziona il futuro nasce non già dal
ricordare ma dal disagio che la memoria procura.
La
memoria è lo strumento che consente di valutare "gap" tra sapere che
cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che il proprio
"io" ha mancato in qualche punto. Una questione che mentre si
preoccupa di riappacificarci col passato, apre questioni laceranti con i fatti
del nostro presente e interroga in forma drammatica il nostro agire. L'episodio
più eclatante in senso tragico riguarda Srebrenica e, soprattutto, il disagio
che l'Europa ha provato, facendo di tutto per non confrontarsi con ciò che
quelle scene significavano se non dopo, a evento consumato, quando ormai negare
non era più possibile
David Bidussa
Il Sole24ore 22 gennaio
2012
…e noi vogliamo
determinare al
meglio il nostro FUTUR0.
…se volete dite la Vostra qui
sotto!!!
gba
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