sabato 9 agosto 2014


Le cose serie
che
andrebbero fatte…


Il poltronificio delle partecipate

Ci sono 26 mila posti tagliabili
Con il piano messo a punto da Cottarelli
possibili risparmi fino a 3 miliardi


Le società controllate da Comuni e Regioni? Un vero e proprio poltronificio. Se per magia domani Renzi riuscisse davvero ridurre di colpo da 8000 a 1000 le società controllate dagli enti pubblici salterebbero 26mila poltrone, tra presidenti, amministratori delegati, consiglieri e sindaci. Per un risparmio diretto di almeno 4-600 milioni di euro di emolumenti. I dati non possono essere fissati con certezza, ed in realtà la forbice oscilla tra 21 e 30mila posti, ovvero da un minimo di 2,9 a 4,3 membri per consiglio (stime dell’Istituto Pio La Torre), perché il mondo delle partecipate è in continuo rivolgimento. Un «mondo oscuro» l’ha definito la Corte dei Conti.  

L’ultimo Rapporto del ministero dell’Economia parla di 8.146 società, la magistratura contabile arriva a 7.472, anche se poi tolte quelle che fanno capo allo Stato, 50 gruppi con 520 controllate di secondo livello, il conto si riduce a 5.258. Il rapporto di Cottarelli, consegnato giovedì sera al governo, ne conta 7.726, ma 1250 non sono operative, 37 mila seggiole e circa 450 milioni di emolumenti. Il tutto da sforbiciare per bene per arrivare a risparmiare in tutto 2-3 miliardi. 

Stringendo la lente sulle città con oltre 100mila abitanti e le province sopra i 500mila una indagine recente di R&S Mediobanca mette a fuoco molto bene il capitalismo municipale e regionale «all’italiana». I suoi pro (pochi) ed i suoi contro (che sono tanti). Filtrando i dati e analizzando al microscopio i bilanci delle 67 società detenute dai 115 più importanti enti locali che presentano un fatturato consolidato superiore ai 50 milioni di euro viene alla luce un universo che con le controllate lievita ad un totale di 435 imprese, che conta 132mila dipendenti e vale 31,7 miliardi di fatturato.  

Un mondo composto dalle ricche multiutiliy e dalle società energetiche, che tra il 2006 ed il 2012 hanno realizzato utili per 3,3 miliardi, e imprese come quelle di igiene urbana e quelli che gestiscono tram e busi in rosso fisso. In sei anni la romana Atac ha accumulato oltre un miliardo di perdite (e da sola, sostiene Cottarelli, genera metà delle perdite di tutto il trasporto pubblico locale italiano), la milanese Asam 312 milioni, la romana Ama 290, la napoletana Ctp 210, la laziale Cotral 168. Di contro A2A ha fatto utili per 1,1 miliardi, Acea per 701 milioni ed Hera per 693. Molte producono ricchi dividendi, ma tante altre rappresentavano un pozzo senza fondo assorbendo tra l’altro 4,4 miliardi di euro di contributi legati ai contratti di servizio: 2,9 miliardi le aziende di trasporto e 1,5 quelle di igiene ambientale. Costi che alla fine pagano i cittadini con un esborso procapite di 160 euro l’anno.  

Si accumulano grosse perdite, insomma, ma in parallelo anche potere, poltrone e clientele da spartire e consulenze da assegnare a pioggia. A tutto il 2012 i 115 enti locali azionisti delle società analizzate da R&S avevano insediato negli organi societari delle partecipate ben 2.345 propri rappresentanti dei quali mille in posizioni apicali (presidente, amministratore delegato, ecc). A queste nomine poi se ne aggiungono a cascata altre 2.287 in enti, fondazioni e consorzi. 
I comuni hanno espresso 1.089 nomine, mentre Regioni e Province si sono divise le altre 1300. Il numero dei nominati è mediamente pari a 15 persone per ciascuna provincia, 22 per ogni comune e 32 per le regioni. Venezia (65), Roma e Parma, prima del disboscamento avviato da Pizzarotti causa rischio-default, con 53 ognuna, sono le città che hanno espresso il maggior numero d’incarichi.  

Trento con 105 e Bolzano con 59 sono le province più prolifiche, il Friuli (66), la Valle d’Aosta e la Sicilia (58) le Regioni più attive. Detto questo, Mediobanca non nasconde che nell’ultimo triennio sia stato fatto un certo sforzo per contenere i costi: un po’ ovunque il numero di nomine è calato del 16,5%, il monte stipendi è sceso del 21,2% ed il compenso medio per carica ha subito uno decurtazione del 9%, da 26 mila a 23.700 euro. Cottarelli va ovviamente oltre: accorpa, cede e taglia società ed inoltre propone cda formati da appena 3-5 componenti, divieto di cumulo degli incarichi e rigidi tetti ai compensi. Una vera e propria sfida nella sfida. 

Paolo Baroni
La Stampa 9 Agosto 2014


Ricordo a chi se lo fosse dimenticato che il ciarlatano qualche giorno fa ha ricordato, con tono perentorio, al Dott. Cottarelli, estensore di diversi progetti realmente riformatori, che è la politica a decidere…arrivando addirittura a far intravvedere un possibile defenestramento del suddetto encomiabile personaggio.

Nel frattempo il nostro presidente del consiglio ringalluzzito dall’incontro con il condannato a titolo definitivo per reati fiscali…parlava, parlava, parlava portando in Senato una riforma pasticciata e contraddittoria che come unico scopo ha quello di sancire che in questo Paese vige una democrazia di nominati e non di eletti. Quello che leggete oltre è un equilibrato e saggio giudizio su tale indecente riforma. gba

…quelle
fatte male…

Senato, occasione persa
si poteva volare più alto





Caro Direttore,

ho partecipato alla discussione e al voto sulla riforma del Senato senza posizioni precostituite. Mi interessava capire contenuti e metodo. Cioè come si riforma uno Stato. Un’occasione unica per imparare come in un altro ambito di impegno pubblico, diverso da quello in cui lavoro, «si cambia per migliorare». Ho ben compreso l’impegno dei relatori, della Commissione e di tutta l’Aula. Ho ascoltato in silenzio molti interventi di ogni appartenenza politica e seguito la discussione fuori, in un Paese distratto dal periodo balneare e schiacciato dai dati dell’Istat che parlano di economia in recessione. Ho apprezzato alcune modifiche al testo del Governo. Ma nel complesso prevale la delusione.
Delusione per aver sprecato l’occasione per condividere e confrontarsi sulle visioni del Paese che vogliamo consegnare ai nostri figli.

Le risorse umane, professionali ed intellettuali per fare meglio c’erano tutte, in Senato e fuori. Attraverso la scelta di più opzioni sul nuovo modello costituzionale ci saremmo potuti interrogare sul futuro. Sarebbe stato utile provare a simulare, per meglio scegliere, le conseguenze attese da una riforma di tale portata. Lo si poteva trasformare in un progetto culturale per l’Italia, in un auspicato riavvicinamento alla politica, e viceversa.
Ma non ho visto il coraggio di volare alto, di spiegare ai cittadini quel che serve per riqualificare sia la composizione che le funzioni delle camere, nel quadro di un ordinamento nuovo e ben coordinato.

Ho cercato novità nei ragionamenti proposti, offrendo le mie riflessioni, per quel che valevano. Ma nella rincorsa al consenso elettorale la strategia comunicativa usata dal Governo è fatta di pensieri mignon, di 140 caratteri, strutturalmente estranei alla competenza, all’esperienza e ai saperi specialistici. Mi pare che l’obiettivo della riforma del Senato sia altrove e miri prevalentemente a consolidare una governabilità con tenui contrappesi a scapito della partecipazione diretta dei cittadini nella scelta dei loro rappresentanti. Perché, ad oggi, il risultato delle riforme costituzionali ed elettorali in cantiere è un Senato di cooptati dalle segreterie di Partito e una Camera di nominati. Il cittadino non c’è più. Voglio essere chiara: si potrebbe anche discutere, per assurdo, una simile soluzione, se i criteri di scelta per cooptare o nominare fossero quelli che valgono in alcune tecnocrazie, le cui economie corrono alla velocità superiore al 5% di crescita da almeno vent’anni.

Il mio voto di astensione è stata dettato da questo disagio e da tre motivi: il primo riguarda il contesto generale in cui si sono svolti lavori. Di scarso ascolto e di linguaggio inadatto a un momento tanto importante. Si è parlato di «allucinazioni» e «professoroni», con un sentimento «di sufficienza verso accademici ed esperti politicamente impegnati». Il linguaggio deriva dal pensiero e gli illustri studiosi di storia politica presenti in Senato mi insegnano che l’anti-intellettualismo è un indicatore di crisi culturale e civile per un sistema liberaldemocratico.

Il secondo motivo riguarda il metodo utilizzato, troppo condizionato da pressioni esterne, come riconosciuto ieri da uno dei relatori, e dalla disciplina di partito, con cui si sono dettati contenuti, paletti e tempi, decisi fuori dall’aula. È un metodo sbagliato perché non si può condurre un esperimento che presuppone libera condivisione democratica senza la disponibilità a esaminare davvero e analiticamente i risultati che questo esperimento è destinato a produrre. Se si sbaglia il metodo nel fare un esperimento, i risultati saranno inutilizzabili. Quando va bene. 

Il terzo motivo riguarda il progetto. Gli interventi ascoltati e i miei colloqui con i colleghi dell’emiciclo, mi fanno concludere che quello in esame è un progetto pasticciato e frettoloso, decontestualizzato rispetto ad altre riforme. E’ un progetto che non è in grado ora di indicare l’esito, l’equilibrio, la visione del nuovo assetto costituzionale che stiamo costruendo. 

Non mi convincono le motivazioni a sostegno di un Senato non elettivo, le scelte sulle funzioni assegnate a questa Camera, la mancata riduzione del numero dei deputati, l’incertezza circa le garanzie di bilanciamento dei poteri e circa l’effettività del pluralismo della futura rappresentanza parlamentare. Non mi convince come è stata affrontata la questione dell’elezione del Presidente della Repubblica e la mancata ricerca di un metodo per acquisire al nuovo Senato «personalità abituate a disegnare le frontiere del mondo», che sarebbero utilissime in queste contingenze economiche.

La distanza con cui parte dell’aula ha accolto la proposta di rafforzare nel nuovo Senato le competenze culturali, accademiche o in generale espressione di eccellenze internazionalmente riconosciute nei diversi settori dell’attività umana, utili per inquadrare le sfide mondiali che il Paese dovrà affrontare negli anni a venire, mi ha chiarito le complessità da risolvere nel perseguire prospettive comuni d’innovazione. 

La riforma costituzionale è auspicata da tutti. Essa deve garantire i futuri cittadini e non essere piegata alle convenienze dell’oggi. Per questo ho espresso un voto di astensione che in Senato equivale a contrario, perché nel suo piccolo, sia un segnale per i cittadini e per i colleghi dell’altro ramo del Parlamento, affinché i loro lavori possano essere più sereni, autonomia e positivi. Questa è la prima lettura, i costituenti ne vollero quattro, c’è ancora molta strada da fare. Per migliorare.

Elena Cattaneo - Senatrice a vita

…e le molte altre che potranno essere
 fatte solo quando gli italiani si renderanno conto che il cambiamento vero deve partire da loro!!!

Se volete, dite la Vostra qui sotto!!!
gba

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