Quando la consapevolezza
e la ribellione
non sono collettive
non sono collettive
non resta che
SUICIDARSI
per far morire
sogni ed illusioni!!!
Di precariato continuo si muore
Un giovane disilluso si
racconta
di Rossella Michienzi
di Rossella Michienzi
Un intenso e cupo romanzo realista
rivela l’egoismo di una società malata.
rivela l’egoismo di una società malata.
«Dedicato
a chi si è svegliato, e a chi è morto nell’attesa che gli altri si
svegliassero»: questa l’agghiacciante dedica del romanzo di Giovanni
Parrotta,Meglio morto che precario. Parole forti, sconcertanti, che di certo
non lasciano indifferente il lettore, provocando un ciclone di emozioni,
forse di rabbia, la stessa che si prova quando guardando il tg si viene a
conoscenza di un altro, l’ennesimo, suicidio.
Il
problema è che dopo un po’ tutto diventa “consuetudine”, e allora ci si abitua
a sentire, per esempio, di un giovane qualunque che si è ucciso in
uno squallido monolocale di periferia, perché non riusciva a pagare
l’affitto e di lavori stabili, o adeguatamente retribuiti, neanche l’ombra. E
così, i giorni passano e il crescere dei suicidi è direttamente
proporzionale all’aumentare vertiginoso della disoccupazione giovanile. Tutto
normale. Pura consuetudine. L’essere umano, da sempre, si
rattrista, riesce a commuoversi, o comunque ad avere una reazione emotiva,
di fronte a singoli eventi, ma quando si trova davanti a situazioni che
coinvolgono una “massa” di persone diventa quasi insensibile. Si
abitua. Si commuove se vede un bambino per strada, sofferente, ferito, ma
scorre velocemente e con estrema indifferenza le pagine dei quotidiani che
raccontano di vicende belliche in cui migliaia di bambini perdono la
vita. Perché? Perché non si fa più caso a queste notizie? Al
giorno d’oggi, nel nostro amato paese, sono tanti, forse troppi, i suicidi
o tentati suicidi di uomini e donne che cercano di combattere un “virus”
distruttivo, lacerante: la precarietà.
È
proprio qui che si inserisce il libro (edito da Iride, marchio del gruppo editoriale
Rubbettino, pp. 92, € 10,00) di Giovanni Parrotta – giovane e talentuoso
autore. Libro
tristemente realista che riflette una società malata, allo sbaraglio, in cui
l’individuo ha perso il controllo della sua stessa vita, e preferisce
rinunciarvi.
Una
vita vissuta tra i compromessi di un mondo da reinventare, Michele, 29 anni, è
un giovane che ad un certo punto della sua esistenza inizia a creare una sorta
di diario. Attraverso un lungo flashback rivive le tappe più
importanti del suo passato: la gioventù, la spensieratezza degli anni del
liceo, quegli anni importanti in cui coltivava una vera e propria passione per
il calcio (carriera spezzata, ancora prima di iniziare, da uno sfortunatissimo
incidente in campo) poi, il fallimento universitario e da qui la discesa, la
delusione di fronte ad una vita mediocre, costretta ai margini di una società
squallida: la società del lavoro nero e dello sfruttamento.
Dopo
la deludente tappa universitaria, Michele decide di lavorare seriamente, così
inizia a collaborare con uno studio geometra, ma a stento riesce a ricavare i
soldi per pagarsi la benzina per il motorino. Così, dopo una serie di
fortuiti incidenti, cambia, da praticante geometra a manovale, poi la breve
parentesi in un call center, «un’avventura a progetto» senza speranze
e, aspettando di firmare un contratto che, in realtà, non arriverà mai,
comincia a percorrere la sua scalata sociale… Sì, ma al contrario.
Il
nostro Michele diventa vittima di un sistema che non gli piace, che gli ruba
l’anima, la dignità, la voglia di continuare a sperare in un mondo che piano
piano lo sta tagliando fuori. Dove sono finiti i veri valori: legalità,
dignità, rispetto di se stessi e del prossimo? Lasciare il lavoro non fa che
accrescere quel vortice di solitudine che, ormai, lo divora. Ora si sente
giudicato anche dalla sua stessa famiglia, da suo padre, bracciante che per non
finire nelle mani della ’ndrangheta si spacca la schiena tutto il giorno, ma
che sembra piano piano arrendersi alla corruzione e ai compromessi di un mondo
da reinventare.
Protagonista
di questo mondo, Michele si maschera, imita la superficialità dei suoi amici,
facendo l’idiota, bevendo, fumando, ma soprattutto nascondendo la sua vera
passione: la scrittura. Sempre più cinico, e realista, ormai non crede più nella
possibilità di farcela.
È
proprio vero: una rondine non fa primavera, e nonostante Michele si opponga ad
una realtà assurda, che non riesce a mandar giù, tutto intorno a lui resta
uguale, l’unico cambiamento possibile è rappresentato dalla morte. Il suo
urlo di dolore risuona nella lettera che, prima di suicidarsi, scrive alla
madre: «Non
v’è morte che si consuma lenta e colma d’atroce disincanto più del rimanere a
penzoloni strozzato dalla corda della speranza di una vita migliore senza far
nulla per migliorarla. Io c’ho provato e non ci sono riuscito. Forse potevo
fare di più, forse non ho fatto abbastanza, forse mi potevo piegare».
Prima
di uccidersi, Michele riflette sul fatto che avrebbe potuto adeguarsi alle
“regole del gioco”, ma forse siamo noi (parte integrante di una società
sull’orlo del disastro) che dovremmo riflettere sulle parole di
Michele «Forse potevo fare di più». Per tentare di cambiare le
cose, forse tutti potremmo, o meglio, dovremmo fare di più.
Il suicidio: l’unica vera
forma di ribellione?
I
dieci capitoli del libro, in cui la storia di Michele è perfettamente
incastonata, catapultano il lettore in un universo marcio, infetto da un
male da sradicare. Il piccolo mondo di Michele è quello di una cittadina
di provincia, non proprio il luogo dove un giovane ambizioso spera di
costruire il suo avvenire. In piccoli centri come questo il lavoro è
una vera e propria utopia, non ci sono speranze di crescita per chi, alla
maniera picaresca, tenta la scalata sociale.
Ebbene
sì, quella che racconta Michele è la storia di un giovane che sogna di andar
via, che per sé sogna qualcosa di meglio di un contratto trimestrale a
progetto (nell’ipotesi meno catastrofica). Michele ripercorre la sua
storia, quella di un giovane idealista e disadattato che non riesce a
realizzarsi, a lavorare onestamente, e che, al contrario, deve accontentarsi di
lavorare a noir (come se dirlo in francese, e con una bella “r
moscia”, facesse sembrare la cosa meno squallida e più “accettabile”… per l’orecchio
forse).
Parrotta
è in grado di narrare una storia tanto triste quanto attuale attraverso un
realismo disarmante che, tra l’altro, ricorda da vicino il
neorealismo di Pasolini, il quale conosceva molto bene le condizioni del
sottoproletariato urbano nell’immediato Dopoguerra quando la miseria
era più tiranna che mai. Cambia lo scenario ma la storia sembra ripetersi,
sfogliare le pagine di questo libro, leggerle, lasciarsi trascinare da esse,
significa principalmente fare i conti con la rabbia, mescolata alla forte
disillusione, che trapela da ogni parola di Michele e dalla sua voglia di
“riscatto”. Nel romanzo si percepisce la voglia di resistere ad una realtà
che si rivela claustrofobica!
Il
tutto si riflette in uno stile originale che, tra accenni freddi ed intimisti,
lascia spazio ad un linguaggio crudo, così come cruda è la realtà contro la
quale ci si scontra continuamente e di fronte alla quale l’unica soluzione
plausibile sembra essere un cappio al collo. Un nodo ben fatto – come quello rappresentato
nella copertina, non a caso, del romanzo – e non se ne parla più! Ecco che il
suicidio si rivela la cosa più sensata da fare, perché tanto nessuno fa niente
e Michele sembra lottare contro i mulini a vento, ma al contrario del
famoso Quijote de la Mancha, non è alla ricerca di eroiche avventure
bensì semplicemente di un lavoro stabile ed una vita serena.
Sulle
orme di un ragazzo tormentato da dubbi ed incertezze, la narrazione, nel suo
complesso, non è altro che una “macchina ingegnosa” costruita per adempiere ad
un compito gravosissimo: dare un segnale d’allarme. L’autore, senza neanche
accorgersene, ha ridato vita all’ideale dell’intellettuale impegnato, si sente
forte il “fantasma” del caro Alberto Moravia sempre pronto a dare il suo
giudizio sulla realtà politica e sociale del suo tempo. E quand’anche non fosse
questo l’intento del nostro autore, la sua bravura sta nel mostrare con forte
credibilità narrativa il lato oscuro della società ed il suo crescente egoismo,
dunque: meglio morto che precario? La società non ha dato molte alternative al
povero Michele, uno di noi, un ragazzo brillante che si arrende ad una vita
fatta di sporchi compromessi.
Un
libro da leggere tutto d’un fiato, tenendo presente il grandissimo merito
dell’autore: aver dato ai lettori una storia su cui riflettere, nella speranza
che la riflessione non finisca con la fine del romanzo.
Rossella Michienzi
anno VI, n. 62, ottobre 2012
…ma questa società culturalmente inadeguata pare non
voler capire
che essere ed apparire devono insieme trovare spazio
per potersi realizzare.
Nel frattempo
mentre pochi meditano
molti parlano
tutti si lamentano
troppi decidono di spegnere definitivamente
la luce!!!
…se volete dite la Vostra qui sotto!!!
gba
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