Sulla via del
buon senso…
buon senso…
Barilla “Confindustria ritorni
a occuparsi dei produttori
Fuori le aziende di servizi”
a occuparsi dei produttori
Fuori le aziende di servizi”
“Per creare lavoro,
bisogna
solo rilanciare la competitività”
«Confindustria
deve rimettere al centro il prodotto, l’industria manifatturiera. Così come è
oggi l’organizzazione non funziona: era nata per sostenere le imprese di
prodotto, che questo fosse l’auto, la pasta o i tessuti; adesso, invece, è
diventata rappresentante anche di interessi contrastanti, come quelli delle
aziende di servizi alle imprese e delle utilities, inciampando in un continuo e
concreto conflitto d’interesse».
Non
è un sasso, ma un macigno, quello che Guido Barilla lancia nello stagno
confindustriale. Oggi pomeriggio, intervenendo all’assemblea cosiddetta
«privata» dell’organizzazione imprenditoriale - prima delle assise pubbliche di
giovedì - uno dei nomi più noti del Made in Italy pronuncerà di fronte ai suoi
colleghi un discorso assai netto che critica a fondo il funzionamento e la
stessa attuale ragione sociale di Confindustria, puntando il dito in
particolare sull’allargamento alle grandi imprese pubbliche o ex pubbliche come
Eni, Enel, Poste e Ferrovie.
Un allargamento cominciato poco meno di un
decennio fa e che, sostiene, «ha snaturato» la fisionomia dell’organizzazione.
«Oggi Confindustria - aggiunge il presidente di Barilla - non persegue
l’interesse generale delle imprese, ma interessi particolari. Rischiamo di
essere uguali a quel sistema politico e istituzionale che tanto critichiamo
perché non riesce a esprimere una politica industriale».
Non
esattamente una posizione diplomatica, la sua. Non so se oggi raccoglierà
troppi applausi...«So
che mi attirerò critiche e antipatie e la parte della Cassandra non è mai
piacevole. Ma ho il privilegio di poter dire quello che penso, basandomi su
dati oggettivi, e spiegando anche che il tempo per il cambiamento è già
scaduto. E da molto».
Quali
sono questi dati oggettivi che impediscono secondo lei il funzionamento di
Confindustria?
«Le
faccio un esempio che più concreto non si può. Per il nostro gruppo lavorare in
Italia significa avere ogni anno una bolletta energetica che costa 30 milioni
in più di quello che ci costerebbe se fossimo, ad esempio, in Francia. Soldi
che potremmo investire, creando anche lavoro. Ma chi rappresenta la Barilla e
le imprese come noi, ossia proprio Confindustria, non può fare una battaglia
per abbassare il costo dell’energia perché allo stesso tempo rappresenta anche
chi fornisce energia alle aziende. I Paesi forti hanno le banche e le grandi
utilities al servizio delle imprese di produzione che creano veri posti di
lavoro e di conseguenza portano ricchezza e competitività per tutti. Quando le banche e le utilities hanno il sopravvento
sulle industrie, allora i Paesi si indeboliscono irrimediabilmente.
Badi, io non ce l’ho con queste società, che fanno egregiamente il loro lavoro
nell’interesse dei loro azionisti. Ma farle entrare in Confindustria è stato un
peccato originale dal quale non si esce».
Da
quel che dice, la strada obbligata sembra una separazione tra produttori
manifatturieri e imprese di servizi.
«Assolutamente
sì. Chi fa servizi dovrebbe essere fuori da Confindustria, visto che non
facciamo lo stesso mestiere. Dunque serve una Confindustria di produttori ed
eventualmente un’altra associazione che riunisca chi - come Eni, Enel o
Ferrovie - fornisce servizi ai produttori. E anche nelle federazioni di settore
c’è da pensare a soluzioni simili. Non è possibile che Federalimentare, di cui
facciamo parte, tenga assieme i produttori di materie prime e i trasformatori e
poi, su un tema importante come quello delle scadenze dei pagamenti, esprima al
governo una posizione opposta a quella delle industrie di trasformazione».
Non
teme che questa voglia di dividersi possa indebolire Confindustria? In fondo
siamo in una fase in cui anche i partiti politici superano le divisioni e danno
vita a un governo di larghe intese.
«Le
larghe intese, gli accordi arrotondati, per le imprese non servono. L’industria
stessa, per sua caratteristica, è anzi la punta di lancia del Paese. E in
quanto a indebolire la Confindustria non lo temo. Anzi, penso sia più debole in
questa situazione, dove per essere la casa di tutti si finisce invece per
diventare la casa di nessuno».
Parlando
di governo, come giudica le prime mosse sul fronte economico? E’ giusto
eliminare l’Imu? E come pensa che potranno influire i provvedimenti in arrivo
per il lavoro?
«La
disoccupazione, specie giovanile, è probabilmente il maggior problema del
Paese. Ma in questi anni
ci siamo dimenticati che senza prodotto non c’è lavoro.
In fondo è molto semplice: le imprese devono essere competitive, ossia fornire
prodotti di qualità a prezzi competitivi con quelli dei concorrenti, in modo
che i clienti li comprino. Solo così si possono fare investimenti e creare
lavoro. Incentivi, sgravi e agevolazioni servono solo in modo temporaneo e
rischiano di aggravare la crisi nel medio-lungo periodo perché “drogano” il
sistema. Invece noi blateriamo da vent’anni sulla competitività perduta dell’Italia
senza capire che la competitività è sinonimo di lavoro e che bisogna fare pochi
ma decisivi interventi: livello di tassazione, costo dell’energia, costo del
lavoro, più infrastrutture, meno burocrazia».
Torniamo
alla Confindustria. Lei attribuisce la responsabilità di questa situazione al
direttivo attuale, guidato da Giorgio Squinzi?
«No,
come dicevo è un problema che dura da tempo. E anche la stessa macchina
confindustriale, con circa tremila addetti, è un enorme ministero che frena
ogni cambiamento».
Come
pensa che possa arrivare questo cambiamento?
«Lavorando
dall’interno, con pazienza, per cambiare le cose. Serve semplificazione. Noi,
all’interno del nostro settore - quello alimentare - ci siamo mossi da tempo,
ad esempio sciogliendo due distinte associazioni di produttori di pasta e di
dolci e poi fondendole in una sola. Ma sempre la Federalimentare ha diciassette
diverse associazioni di cui ben sette che si occupano tutte di prodotti
liquidi. Ecco, queste diciassette potrebbero agevolmente essere ridotte a
quattro. Allo stesso modo non capisco perché Barilla debba pagare ogni anno
dodici diversi contributi a dodici diverse associazioni territoriali del
sistema confindustriale, per ricevere in cambio servizi assai modesti».
Lei
ha già espresso alcune critiche all’organizzazione un mese fa, in un’occasione
pubblica. In quel caso ebbe anche parole dure per la Fiat, che ha deciso nel
2011 di uscire da Confindustria. Ma non è questa, alla fine, la strada che
potrebbe imboccare anche Barilla?
«No.
Rispetto le scelte che ciascuno fa e mi spiace se in quell’occasione ho usato
parole che possono essere suonate come offensive. Ma continuo a ritenere che
non sia giusto abbandonare la Confederazione delle imprese in questa fase di
difficoltà, mentre siamo davvero con l’acqua alla gola. Preferisco lavorare per
cambiarla, ma dall’interno».
Lei
stesso, però, sa che il cambiamento è assai difficile. Quanto successo avrà la
sua proposta di tornare a dividervi tra imprese manifatturiere e non? E non è
vero che altri imprenditori hanno lasciato Confindustria?
«Alcuni
lo hanno fatto e molti, cosa ancora peggiore, pensano di farlo. Noi
continueremo a muoverci dall’interno per cambiare le cose. Poi, se davvero non
ce la dovessimo fare allora succederà come quando in famiglia non si va più
d’accordo. Ci si separa, ma è una sconfitta».
Confindustria
ha affidato al vicepresidente Carlo Pesenti il mandato per riformare il
sistema. Stanno arrivando proposte convincenti?
«Non
lo so proprio, perché non c’è ancora alcun documento. Dalle dichiarazioni di
Pesenti che ho letto sui giornali concordo con l’obiettivo di semplificare, ma
come è ovvio non con quello - che ha enunciato - di mantenere assieme chi fa
prodotti e chi fornisce servizi».
Francesco Manacorda
inviato a Parma
La
Stampa 22 Maggi0 2013
…qualche industriale finalmente si sta accorgendo
che l’economia del denaro
che produce denaro
sta
distruggendo il mondo!!!
…se volete dite la Vostra qui sotto!!!
gba
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