Lettura
consigliata…
Troppi rinvii
sul vero problema
La mia sensazione è che la politica, tutta la politica, non si renda minimamente
conto di quanto stia peggiorando la situazione economico-sociale dell’Italia. E
proprio perché non se ne rende conto, continua a trastullarsi con un’infinità
di dibattiti e manovre di palazzo, leggi e leggine, super-riforme e riformette,
tutte di per sé importanti e degne di attenzione, ma accomunate da un unico
elemento: di non andare al nucleo del problema italiano, rimandando ogni volta
al futuro le scelte che contano. Dove per scelte che contano intendo due cose
ben precise: scelte che incidono sul vero problema dell’Italia, e che possano
dare risultati da subito, non fra qualche anno o decennio.
Qual
è il vero problema dell’Italia?
Non
è da persone raffinate dare una risposta secca a una domanda del genere, ma
sfortunatamente in questo caso c’è una sola risposta, ed è più secca che mai:
il vero problema dell’Italia è (anzi, è diventato) il suo bassissimo tasso di
occupazione. Se come termine di paragone prendiamo i 18 Paesi a noi più
comparabili, e cioè i Paesi europei avanzati (Ocse) che già negli Anni 50 erano
economie di mercato, ebbene l’Italia non solo occupa il posto più basso in
graduatoria, ma lo occupa dopo essere stato un Paese normalissimo,
perfettamente allineato alla media degli altri Paesi europei.
Il
nostro attuale mortificante tasso di occupazione, in altre parole, è
eccezionale non solo rispetto a quello degli altri Paesi, ma lo è anche
rispetto al nostro passato. L’Italia è diventata un Paese in cui una minoranza
di occupati lavora tantissime ore all’anno, spesso con due occupazioni, mentre il
resto della popolazione non lavora affatto. E, giusto per dare un’idea degli
ordini di grandezza, possiamo aggiungere una semplice stima: se dovessimo
allinearci ai tassi di occupazione dei Paesi «migliori» (Norvegia e Svizzera)
dovremmo creare 12 milioni di nuovi posti di lavoro, passando da 22 a 34
milioni di occupati, e se anche solo ci accontentassimo di adeguarci alla media
dei 18 Paesi a noi più simili, di posti di lavoro nuovi dovremmo crearne almeno
6 (altroché il milione di posti di lavoro promessi da Berlusconi nel «Contratto
con gli italiani»).
Ma
perché questo è il problema dei problemi?
La
ragione è molto semplice. Il tasso di occupazione di un Paese esercita un
enorme impatto sui due parametri fondamentali con cui siamo soliti giudicarlo e
apprezzarlo: il suo livello di benessere e il suo grado di eguaglianza. O, più
prosaicamente: l’ampiezza della torta del reddito nazionale, e l’equilibrio con
cui è suddivisa. Due parametri che, sia detto per inciso, sono le stelle polari
della destra (da sempre preoccupata innanzitutto di aumentare le dimensioni
della torta) e della sinistra (da sempre preoccupata che le fette non siano
troppo diseguali).
Ma
c’è anche una seconda ragione, più concreta e immediatamente comprensibile, per
cui quello dell’occupazione è il problema italiano, ed è che un tasso di
occupazione così basso crea una nuova frattura sociale, quella fra quanti
un’occupazione ce l’hanno e quanti sono sostanzialmente esclusi dal mercato del
lavoro, ossia i giovani e, in misura ancora maggiore, le donne adulte. Una
frattura che va ad aggiungersi a quella fra garantiti e non garantiti, che da
decenni è una delle piaghe del nostro mercato del lavoro.
Se
questo è il nocciolo del problema italiano, può stupire che la politica così
poco se ne curi, e quando se ne cura lo faccia nel verso sbagliato, ad esempio
preoccupandosi più dei garantiti che dei non garantiti, più degli inclusi che
degli esclusi (vedi il bonus da 80 euro, mirato su chi un posto di lavoro già
ce l’ha). Ma non dobbiamo stupircene più di tanto. La timidezza della politica
ha, a sua volta, alcune precise ragioni.
La
prima è che le uniche azioni che potrebbero produrre dei risultati in tempi
rapidi sono considerate politicamente scorrette. Il tasso di occupazione,
infatti, dipende in modo cruciale dalla flessibilità del mercato del lavoro e
dalla ricostituzione di margini di profitto delle imprese, due assoluti tabù
del dibattito italiano degli ultimi anni. Tabù la cui forza si può apprezzare
pienamente se si riflette sul fatto che né la Confindustria né Rete imprese
(l’associazione delle imprese minori) hanno condotto una vera battaglia
politica affinché i 10 miliardi di alleggerimento fiscale fossero messi a
riduzione dell’Irap anziché dell’Irpef, una misura che avrebbe dato una mano a
non garantiti ed esclusi. Non solo, ma lo stesso presidente degli industriali
ha più volte plaudito al bonus degli 80 euro, come se mai si fosse accorto di
quante imprese abbiano dovuto licenziare, e spesso chiudere, proprio perché i
loro margini erano scesi a livelli insostenibili.
Il
fatto è che, oggi in Italia, fra sindacati, industriali e politici vige una
sorta di non dichiarato e irremovibile «consenso keynesiano». La credenza,
cioè, che i problemi dell’economia italiana si possano affrontare solo con
misure di sostegno della domanda interna, il che – in soldoni – significa
sempre la stessa, solita, vecchia ricetta che ci ha portato al disastro: fare
ancora più debito pubblico confidando nella benevolenza dell’Europa e nella
misericordia dei mercati.
Ecco
perché un premier come Renzi non ha avuto alcun problema a dare la precedenza
alla legge elettorale e alle riforme istituzionali (che produrranno i loro
effetti, non necessariamente positivi, fra anni e anni), e a far scivolare
sempre più avanti nel tempo il Jobs Act, da subito sottratto alla competenza
degli esperti e ormai affidato ai riti (e ai tempi) della politica politicante.
E
tuttavia, a discolpa del premier e dei suoi, va anche detta la verità più amara
e politicamente scorretta di tutte: la colpa è anche nostra. Se dei problemi
del lavoro non si parla, o meglio si accetta serenamente di parlarne e basta,
senza affrontarli concretamente, è perché l’Italia non è ancora pronta. Non è
ancora «cotta a puntino», mi verrebbe da dire. Nonostante il numero dei poveri
sia raddoppiato in questi anni di crisi, nonostante i giovani stentino a
trovare un lavoro e le donne adulte manco lo cerchino, nonostante i mass media
da anni dipingano un quadro della situazione drammatico, la percezione del dramma
stenta a farsi largo nelle menti della maggior parte di noi. Ci piace piangerci
addosso, ma non crediamo veramente di star così male come ci raccontano i
servizi dei talk show.
Dopotutto, specie nel Centro-Nord, la percezione
dell’italiano medio è che i drammi che vede in televisione siano drammi degli
altri, e che lui, tutto sommato, non se la passa poi così male. In fondo le
spiagge sono piene, e i ristoranti pure, quasi come ai tempi in cui era
Berlusconi che lo andava dicendo. Quanto ai giovani, la domanda non è solo come
mai non trovano lavoro, ma come diavolo possono permettersi di non
cercarlo.
La
realtà, temo, è che questi due racconti dell’Italia sono entrambi veri. Siamo
precipitati così in basso, siamo così mal messi rispetto agli altri Paesi, che
dovremmo preoccuparcene, e cercare in tutti i modi di risalire, se non altro
per proteggere il futuro dei nostri figli e nipoti. Ma se oggi una reazione,
una «marcia dei 40 mila» (o meglio dei 6 milioni) di giovani e donne è
impensabile, è perché il benessere raggiunto alla fine del XX secolo e la
ricchezza accumulata dalle due generazioni precedenti erano così elevati che
oggi ne beneficiamo ancora, e proprio per questo non siamo pronti ad una
reazione.
Stiamo cadendo, ma siamo partiti da così in alto che non intravediamo
il suolo. I margini per pensare che tutto sommato ce la caviamo ancora bene, che
le cose si raddrizzeranno, che – insomma – si tratta solo di passare la nottata
della crisi, quei margini di autoconsolazione o speranza sono ancora intatti.
Non avere un lavoro è brutto, ma vivere dei redditi dei padri, dei mariti o dei
nonni è comunque meglio che fare la fame (detto per inciso: vorrà dire qualcosa
che l’occupazione autonoma fra gli immigrati aumenta, mentre fra gli italiani
precipita?).
Ecco
perché, per vedere una reazione, penso che dovranno passare ancora alcuni anni.
E in questi anni la politica avrà agio e modo di occuparsi d’altro, come, con
il nostro distratto consenso, sta facendo da sempre.
Luca Ricolfi
La
Stampa 20 Luglio 2014
… al tweettologo
del nulla,
ai suoi
ministri,
agli imprenditori,
ai dirigenti,
ai sindacalisti,
ma ancor di più
agli
italiani
tutti!!!
Se volete, dite la Vostra qui sotto!!!
gba
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