L’Italia
che
vorrei
…
L’arte è mobile ma non sono meglio i capolavori a chilometro zero?
Mentre leggete questo articolo, sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e
Botticelli. Mai la definizione di «patrimonio artistico mobile» è stata presa alla
lettera come oggi: ogni anno (e solo in Italia) vengono movimentati circa
15mila pezzi archeologici e circa 10mila opere d’arte.
Ma dove
va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell’ultimo anno per il
quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sono inaugurate 225 di
arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell’Ottocento e del
primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E poi ci sono le
mostre all’estero: in questi giorni una pubblicità dice che il Duomo di Milano
si trova nel negozio Eataly di New York (l’annuncio parla di tre «boccioni»:
non c’entra Umberto Boccioni, ma alcuni doccioni gotici, da tempo smontati).
Sono
molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è
che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno
misurabili quando forse sarà troppo tardi. Un altro è che si tratta di
un’industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma
forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di
rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai
ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle
opere d’arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce
n’è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio
culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini.
Come
si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i
Beni Culturali si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle
mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la
debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E,
d’altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve
combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di
tabu cattedratici, ma mostrando l’attualità e la forza di un modello
alternativo. Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo
Petrini ha raccontato più volte l’aspirazione «contestuale» di Sloow Food: non
«la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città», ma la
frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli «a casa loro».
Bisognava attuare l’idea di Luigi Veronelli, che parlava di «camminare le
osterie », «camminare le cantine»: e da lì «camminare la terra», «camminare le
campagne».
Insomma:
«Bisognava rompere la gabbia», e riconquistare il nesso essenziale con la
salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la
salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione
della storia dell’arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere
l’umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell’arte, parlare
al nostro tempo. Perché c’è urgente bisogno di «rompere la gabbia» degli
eventi, e di ricominciare a «camminare il patrimonio».
Come
farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del
“chilometro zero”. Nessuno di noi è stato educato a guardarsi
intorno, a considerare il rapporto con l’arte del passato un fatto quotidiano.
Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto
con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero
capolavoro della storia dell’arte italiana. Invece di andare a vedere una
mostra che si intitola «Tuthankamon Caravaggio Van Gogh» (è il successo
annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra
città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci
circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un’epigrafe
memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal
tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche
quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra,
beninteso).
Potremmo
iniziare a «camminare» il fitto tessuto artistico delle nostre città:
ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano.
Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe
indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per
cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall’industria culturale
— ormai insostenibile — ci farebbe immediatamente vedere l’enorme patrimonio
cui possiamo accedere gratuitamente: il «patrimonio storico e artistico della
nazione italiana» (art. 9 Cost.), che manteniamo con le nostre tasse. E non
sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali,
le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un
monumento può avere il successo di una mostra. Allora si potrebbe mettere al
servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima
dell’onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l’effimero e
l’inesistente.
Naturalmente
questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece,
sempre meno storia dell’arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere
coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli
strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe
un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio
o Van Gogh.
Ribaltiamo
il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in
manifestazioni “culturali” a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi
culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri
itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad
accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto
il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti;
visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da
riempire. Oggi nel rapporto col patrimonio artistico: domani, chissà, perfino
nella vita politica.
Tomaso Montanari
La
Repubblica 8 Novembre 2014
…e credo
sia arrivato
il momento
di provarci.
Io ci sto
provando
partendo
dalle scuole e
dal territorio.
Le culture,
nelle diverse forme
e diversità,
hanno valore
solo se
sono vissute
da tutti
come terreno
per il confronto
finalizzato
all’interesse
COMUNE!!!
Se volete, dite la Vostra qui sotto!!!
gba
Nessun commento:
Posta un commento