venerdì 25 giugno 2010

Scendere in campo...

la


legittima
indignazione


 


Ai candidi che consideravano misteriosa la sua nomina, il neoministro Brancher ha tolto ogni illusione impugnando subito il legittimo impedimento: salta il suo processo e ne nasce una legittima indignazione.


 


Sabato - ha fatto sapere ieri - non potrà essere davanti ai giudici di Milano a rispondere dell’accusa di ricettazione e appropriazione indebita nella scalata all’Antonveneta. Deve organizzare il suo ministero, non ha tempo. Dunque non di politica si doveva almanaccare per tentare di capire i presunti misteri della sua nomina, ma di giustizia. Anzi di fuga dalla giustizia. I peggiori sospetti si sono rivelati fondati.


 


Sarà dunque «legittimo» - per noi - indignarsi dal momento che ora tutto è chiaro? Aldo Brancher, ex prete ed ex top manager di Fininvest, è stato nominato ministro con una delega che nessuno ha ancora ben capito (forse nemmeno lui) per consentirgli di sottrarsi a un processo sfruttando quel «legittimo impedimento» che conferisce ai membri del governo italiano una prerogativa sconosciuta ai governi di qualsiasi altro Paese a noi vicino per storia e per sistema. In Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti un ministro sfiorato dal sospetto si dimette; da noi un politico rinviato a giudizio viene fatto ministro in modo da cucirgli addosso la corazza dell’impunità. Ad personam.


 


Per dotarlo dello scudo ministeriale Silvio Berlusconi ha sfidato la logica, il buon senso e anche la fedeltà all’alleato più fedele, la Lega. Tra il premier e Umberto Bossi si coglie spesso una commedia delle parti destinata al teatro della politica che alla fine si ricompone in una complicità che non viene mai meno. Questa volta, nel nome di Brancher, invece si è andati oltre. Nominato ministro per l’«attuazione del federalismo», parola feticcio della Lega, Brancher s’è dovuto prendere prima l’ostracismo di Bossi, poi gli insulti del popolo di Pontida attizzato dal capo.
Niente federalismo, allora. Lo hanno chiamato «decentramento» aggiungendo la parola «sussidiarietà», così cara a Cl.


 


L’importante era che Brancher diventasse ministro di qualcosa. Ma riguardate la fotografia del suo giuramento: lui è sorridente, Giorgio Napolitano invece ha lo sguardo basso come chi deve trangugiare un boccone di cui farebbe volentieri a meno. Nulla poteva eccepire il Capo dello Stato alla nomina di un ministro «senza portafoglio». Ma gli era fin troppo evidente che si trattava di una messinscena. Come s’è visto ieri.


 


E proprio al Quirinale mercoledì sera ha voluto recarsi Umberto Bossi per un colloquio con il Capo dello Stato che - ha raccontato ieri su La Stampa Federico Geremicca - ha avuto toni più che preoccupati per l’insieme della situazione politica. La grottesca nomina di Brancher era la testimonianza dei torbidi.
Ma di quale segreto sarà mai la cassaforte questo Aldo Brancher destinatario di un tale privilegio? Le cronache di Tangentopoli rammentano che quando venne arrestato - da manager Fininvest - per finanziamento illecito del Psi di Craxi, lo stesso Brancher fu oggetto di un’attenzione mistica da parte del suo datore di lavoro. Fu lo stesso Berlusconi a raccontare che insieme a Fedele Confalonieri fece spesso il giro in macchina intorno al carcere di San Vittore dov’era recluso Brancher per mettersi «in comunicazione con lui». Ora che sono tutti e due al governo le comunicazioni sono più semplici. E i misteri sempre più fitti.


 


25 Giugno 2010  Cesare Martinetti 


La Stampa


 


…di


un paese senza futuro


 


È da mesi che in tutti i tinelli d’Italia stiamo scrivendo questo articolo. La vita non è quasi mai un romanzo, ma un concatenarsi di eventi prevedibili.


 


Persino in una scienza inesatta come il calcio. Se giochi contro squadre più scarse che ti costringono a fare gioco, tu che un gioco non lo hai mai avuto, perdi (parola di Gianni Brera, nei secoli dei secoli). Se hai vinto un campionato del mondo e ne affronti un altro con lo stesso gruppo, perdi (Pozzo rivinse perché cambiò 9 giocatori su 11 e dei due sopravvissuti uno si chiamava Peppin Meazza). Se lasci a casa i pochi artisti che ti passa il convento perché sono impegnativi da gestire e tu invece trovi più comodo far marciare in riga dei soldatini, perdi. Se mandi in campo uno stopper di trentasette anni che è stato una diga in gioventù, ma adesso verrebbe saltato in velocità anche da una lumaca obesa, perdi. Se là dove giocavano i Baggio e i Vieri - ma anche solo i Toni e i Totti di quattro anni fa - metti Iaquinta e Di Natale, con tutto il rispetto, perdi. Se chiami Pepe invece di Balotelli e poi ti arrabbi in mondovisione perché non riesce a saltare l’avversario, perdi e ti fai anche ridere dietro. Se nelle amichevoli prima dei Mondiali l’unico attaccante che ti fa gol è Quagliarella e tu non lo fai giocare. Se negli allenamenti l’unico attaccante che ti fa gol è Quagliarella e tu continui a non farlo giocare. Se metti in campo Quagliarella nel secondo tempo dell’ultima partita per disperazione e lui ti fa un gol, forse due, più un altro salvato sulla linea, perdi: ed è pure giusto.


 


Perché il dovere di un condottiero durante una battaglia (scusate il linguaggio bellico, ma il calcio ha sostituito le guerre fra i popoli cosiddetti evoluti) è comprendere quale dei suoi uomini sia baciato in quel momento dalla grazia e lanciarlo nella mischia sovvertendo le gerarchie e le simpatie. Come Totò Schillaci a Italia 90, che pure finì male, ma non così male. Così male - ultimi in classifica nel girone eliminatorio - non era finita mai.


 


Lippi presuntuoso, Lippi confuso, Lippi logoro: il tiro al bersaglio è fitto ma durerà poco. Gli abitanti della città delle emozioni (noi) hanno l’indignazione facile, però a smaltimento rapido. Il fantasma della Corea inseguì il c.t. Mondino Fabbri fino alla tomba. Quello della Slovacchia svanirà dopo il primo gol della nuova Nazionale di Prandelli. Non portare Balotelli in Sudafrica è servito almeno ai giornali per poter titolare speranzosi nei prossimi giorni: l’Italia riparte da Balotelli. In realtà bisognerebbe ripartire dal rafforzamento dei settori giovanili e dalla ristrutturazione degli stadi, mostri polverosi e semivuoti, abbandonati dalla piccola borghesia che non se li può più permettere. Investire sugli uomini e sulle strutture. Sembra una delle tante prediche inutili intorno all’economia italiana. I problemi sono gli stessi e si riducono a uno: assenza di visione del futuro. In questa Italia alla deriva, dove nessuno ha tempo e voglia di programmare, si prediligono le soluzioni spicce. La Corea fu uno choc profondo in un Paese ancora parzialmente serio e portò all’autarchia calcistica, con l’esclusione di oriundi e stranieri dal campionato. La Slovacchia è uno choc evaporabile e in un mondo senza più frontiere condurrà semmai alla decisione opposta: far passare per italiano anche chi non lo è. Possibile che Messi e Milito non abbiano nemmeno una nonna di Castel Volturno?


 


 


25 Giugno 2010    Massimo Gramellini  


La Stampa


 


quando


scenderà


in campo ?

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