L’ultima
perla di Fonzie…
“Il problema non sono
le leggi ma i ladri”
…Renzi
per cortesia
TACI & FAI…
Ma quando dichiariamo
guerra alle mazzette?
di Gian Antonio Stella
dal Corriere, 5 giugno 2014
«Votatelo, pesatelo, se sbaglia
impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse
contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi
coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno
pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è
così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la
mazzetta.
L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è
dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a
tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi
lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle
commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di
più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32
chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.
C’è dentro l’idea della scorciatoia per
aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione
d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni
passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così
pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere
estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al
primo appuntamento.
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri
discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le
opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e
destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato
più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure
erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica
che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se
c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si
sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da
Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.
C’è dentro la blandizia verso i possibili
«amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso
della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia
sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre
ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili,
la gallina dalle uova d’oro del consorzio.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti
soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati
fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia
dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a
interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo
dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale
dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a
17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110
centimetri.
E torniamo al rispetto per l’acqua, la
terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano
la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari,
scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli
affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non
guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta,
ai «schei». Montagne di «schei».
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...
Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come
denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo
della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è
stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote
dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006,
secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono
dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del
96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!
L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo:
dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato
dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4%
del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la
concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla
media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino
del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una
coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte
di meno?
…subito un decreto legge
per ridurre a
massimo
due mandati
la possibilità di occupare
incarichi politici e di gestione amministrativa.
A seguire
pene esemplari e certe
con processi immediati
per tutti i ladri ed i corrotti
di qualsivoglia genere e tipo.
Eliminare poi
TUTTI
i privilegi ed i doppi, tripli
ed ancor di più,
incarichi per
politici e dirigenti
pubblici e privati.
Consentire la detrazione
dai redditi di
TUTTE
le prestazioni
specialistiche
professionali ed artigianali
documentate
da regolare fattura.
Allora si che avrai
cambiato verso.
Se volete, dite la Vostra qui sotto!!!
gba
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